Quante volte ci rivolgiamo così a un bambino che ha combinato qualcosa e sta cercando di evitare il nostro sguardo. Questo bambino sta applicando una strategia molto semplice: “non ti vedo, non ci sei, non sono costretto a comunicare con te”. È chiaro a tutti noi, infatti, che guardarsi negli occhi significa impegnarsi in una relazione che, in questo caso, potrebbe essere spiacevole.
Gli esseri umani, ma anche i mammiferi, sono biologicamente programmati a costruire relazioni sociali. Si tratta di una strategia straordinaria di sopravvivenza, comprendere l’altro e riuscire a risolvere i problemi insieme permette, infatti, di affrontare con successo la complessità della vita.
Il primo tassello per costruire una relazione efficace è l’interazione faccia a faccia: attraverso il contatto oculare, la mimica facciale e la produzione di suoni, costruiamo quello scambio straordinario che ci insegna ad alternarci con l’altro nella comunicazione, a comprendere l’altro e a rispondere in modo congruo.
Il bambino appena nato è da subito in grado di mettere a fuoco quello che si trova a 20 cm. di distanza (proprio la distanza del volto materno quando lo allatta!) e sa riprodurre le smorfie fatte da un adulto. E’ attratto dai suoni e si volta nella direzione da cui provengono. Un bambino di otto mesi è già così attento all’atro che se vede un bambino piangere, entra immediatamente in empatia con lui e inizia a piangere!
Giorno dopo giorno, il bambino incrocia gli sguardi di bambini e adulti e impara questo straordinario gioco della reciprocità che rappresenta la base per la costruzione di legami sociali sani e collaborativi. Ma per sviluppare questa competenza il bambino ha bisogno di incontri ed esperienze e il gioco con gli altri rappresenta un’opportunità da incoraggiare giorno dopo giorno.
Sempre più spesso capita di vedere bambini che sono insieme agli altri, ma che non sono connessi con gli altri. Questi bambini, anche molto piccoli, impegnati a giocare con il tablet o il cellulare dei genitori, stanno perdendo l’ opportunità di una interazione condivisa. L’interazione condivisa è una competenza complessa, richiede di saper comprendere l’altro e i suoi bisogni, essere consapevole dei propri desideri, negoziare, trovare compromessi, gestire conflitti: tutto quello che fanno i bambini quando giocano insieme. La preoccupazione dei ricercatori è che i bambini che non esercitano adeguatamente questa competenza, crescendo potrebbero trovarsi in difficoltà nel comprendere l’altro e nel condividere attività ed esperienze.
Un piccolo esempio: una coppia di genitori si trova in uno studio medico con il loro bambino di 18 mesi, che dovrà fare un’ecografia. Il piccolo è irrequieto e disorientato, è la prima volta che entra in quella stanza e ci sono tanti estranei. I genitori faticano un po’ a tenerlo a bada e a rassicurarlo finche uno dei due prende il suo cellulare e propone al bambino un video. Il piccolo si tranquillizza subito e anche i genitori possono fare un respiro di sollievo. Ma cosa è successo realmente?
- Quando un bambino è spaventato ha il diritto di essere rassicurato. Se mamma e papà lo sanno tranquillizzare e rassicurare, se giocano con lui, il bambino imparerà a contare su di loro e a chiedere aiuto ogni volta che ne avrà bisogno. Tante piccole situazioni quotidiane rappresentano opportunità straordinarie per costruire questo legame e questa fiducia. Qui si è persa un’opportunità.
- La strategia di risolvere i problemi con un congegno elettronico può diventare, nel tempo, la modalità che il bambino apprende per affrontare i problemi. Può accadere così che le normali difficoltà scolastiche o relazionali verranno affrontare dal bambino rifugiandosi nei videogiochi. Qui si è incoraggiato un apprendimento disfunzionale.
Naturalmente tutto questo non significa che le tecnologie vanno bandite, anche i genitori hanno il diritto a momenti di tregua e ben vengano le tecnologie, ma evitiamo assolutamente che questi strumenti interferiscano con l’apprendimento della reciprocità.
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